di Ambra Sansolini
Introduzione
Dove esiste violenza fisica, c’è sicuramente quella psicologica. Ma non viceversa. Pertanto, sono innumerevoli gli ambiti in cui si compie l’abuso psicologico e soprattutto svariate le modalità. Chiunque, nell’arco della propria vita, ha subito questo tipo di vessazione. Dopo avere imparato bene in cosa consiste, rifletteremo su tutte le circostanze che ci hanno visto vittime di una simile aggressione. Solo allora ci renderemo conto che il numero di quegli spiacevoli episodi è enorme. Perché avviene questo? Come mai è un fenomeno sempre più in crescita e ormai diffuso anche tra i giovani? Qual è lo scopo degli autori del maltrattamento? A tali domande risponderemo nelle seguenti righe.
Quali sono i luoghi in cui si perpetra questo abuso?
Ovunque. Più spesso avviene nei posti di lavoro o all’interno di tutti quei gruppi sociali (famiglia, amici etc.) in cui alcuni membri vogliono dominare sugli altri. La ritroviamo persino negli ambienti che si propongono l’elevazione morale e il sostegno delle persone (associazioni culturali, religiose etc.), poiché è più facile nascondere tale forma di violenza sotto propositi edificanti e “buoni”.
Chi la compie è consapevole di quello che fa?
Gli autori del misfatto sono tutti manipolatori. Stabilire se, nello specifico, siano narcisisti perversi o psicopatici, spetta agli specialisti farlo. Può capitare che non siano consapevoli dell’azione compiuta e del danno con essa cagionato, ma nella maggior parte dei casi sono perfettamente coscienti di tutto. Tuttavia, pur rendendosi conto del male procurato, lo sminuiscono agli occhi di sé stessi e degli altri, cercando di trovare blande giustificazioni. Ciò che manca è l’empatia e quindi la capacità di comprendere la sofferenza altrui: le persone sono solo oggetti da usare per i loro infimi scopi.
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Perché sta diventando una forma di violenza così diffusa?
Perché la società in cui viviamo è narcisistica. Con questa accezione non intendiamo assolutamente il fatto che sia composta da tutti narcisisti perversi, ma vogliamo dire che viviamo in un’epoca in cui tutti vogliono primeggiare. Che l’ambizione abbia sempre fatto parte dell’essere umano, non è una novità ed è anche grazie a questa, se ci siamo sempre migliorati fino ai vari stadi di progresso. Però dietro a qualsiasi impulso di elevazione (spirituale, morale o materiale) dovrebbe starci il senso del sacrifico. Ovvero la consapevolezza che per arrivare a raggiungere quello scopo, sia necessario impegnarsi, sudare e faticare. L’odierna società del “tutto e subito” ha annullato drasticamente il ponte che collega il desiderio al raggiungimento dell’obiettivo, per cui vale l’asserzione “quello che voglio, deve essere subito e facile”. Tutto questo è frutto dell’era di Internet e della globalizzazione: basta un click per avere qualsiasi cosa. In quest’ottica è scontato sottolineare come l’altro rappresenti una minaccia: ognuno di noi diviene un intralcio alla personale affermazione, perché quasi nessuno è disposto a faticare. Così, si pensa erroneamente che eliminando una persona, il tratto di strada che collega il desiderio all’obiettivo, sia spianato. L’altro viene eliminato proprio attraverso la violenza psicologica. Non si arriva a uccidere per questi motivi (o comunque solo in rarissimi casi), ma si tenta di soggiogare un soggetto, privandolo della propria sicurezza e autostima. In questo modo, il sorpasso è fatto e arrivo “io”…
Come mai riguarda anche i giovani?
Perché questi sono cresciuti nell’epoca del “cotto e mangiato”. Chi non conosce il sacrificio, calpesta il rispetto. I nostri giovani sono stati allevati con il messaggio che per arrivare, devi dominare. Non gli è stato insegnato cosa siano l’impegno e la fatica.
E gli adulti? Perché riguarda anche loro, pur essendo nati in una società con modelli più sani?
Poiché se non ti adegui, vieni catalogato come diverso. Se non fai quel famigerato sorpasso, schiacciando l’altro, non vai da nessuna parte. Quasi tutti gli adulti ormai vivono secondo questa abietta mentalità. Hanno conosciuto il sacrificio dei loro genitori, ma lo rinnegano ogni secondo. Un proverbio recita che “l’occasione fa l’uomo ladro”, così ognuno pensa: “perché dovrei prendere la strada lunga, quando davanti a me ho una scorciatoia?” Pertanto occorre rieducare ai sentimenti e alle emozioni, in modo tale da renderci conto che quella scorciatoia è possibile a patto di dominare qualcuno e che tale assoggettamento va contro il più alto senso di umanità, insito in ciascuno di noi, ma ormai assopito dalla corsa generale verso qualcosa.
Contano più le cose o le persone?
Sebbene fioriscano come chicchi di grano società di mutuo aiuto e altri gruppi che sembrano mettere la persona al primo posto, in verità a farla da padrone sono sempre le cose. Siamo una società dove domina la solitudine. Per quanto fingiamo di essere collegati con il mondo intero, in verità siamo connessi solamente con i nostri desideri egoistici. Non si dà più il giusto valore alle persone: anche queste sono divenute un semplice numero, che cresce o diminuisce. A tale fenomeno hanno sicuramente contribuito i social network: con un click si pensa di conoscere qualcuno. Con lo stesso click si è convinti di poterlo innalzare o al contrario senza, di poterlo scaraventare negli inferi. Pensare di poter incidere così decisivamente sulla vita di un soggetto, accresce anche la convinzione di riuscire a distruggerlo a proprio piacimento. Ecco allora che entra in gioco la violenza psicologica, che va a braccetto on questo senso di onnipotenza, trasmesso dannosamente dai social.
Qual è lo scopo di chi si rende autore di violenza psicologica?
Dominare, affermarsi, apparire a discapito dell’essere. Vincere. Soggiogare l’altro significa essere forti. L’obiettivo principale è il sorpasso di cui abbiamo parlato sopra. Se spengo l’altro, allora brillo io. Ma che soddisfazione si prova a stillare luce nel buio? Nessuna. Però è più facile apparire luminosi nell’oscurità. Diventa più semplice far rumore nel silenzio, che farsi sentire tra altre voci. Meglio cantare soli che in coro. Almeno a essere bravo sono solo io e gli applausi sono tutti per me.
Come riconoscere un banale litigio da una forma di violenza psicologica?
Sarà capitato milioni di volte a tutti di dire “non ci siamo capiti”. Ma davvero c’è stata una mancanza di comprensione oppure ha preso parte la violenza psicologica? Quante volte siamo stati esortati da qualcuno alla riappacificazione? Quanto spesso abbiamo sentito dire “dai, fatela finita ora e andate avanti”. Eppure in noi c’era una sensazione di malessere più grande, come quella che caratterizza l’abuso psicologico. La prima spia per riconoscere un comune diverbio dal maltrattamento vero e proprio è infatti riconducibile a ciò che proviamo. Ma capiamo che molte volte fidarsi delle sensazioni e basta, può anche risultare azzardato. Pertanto, analizziamo nel dettaglio i modi in cui si manifesta la vessazione.
Alcuni esempi
Per quanto le parolacce possano essere di pessimo gusto e marcatamente aggressive, non saranno mai nocive quanto le frasi tipiche della violenza psicologica. Quindi, se durante l’accesa discussione, non udite qualche parolaccia, già dovete alzare le antenne. Di solito, queste espressioni colorite sono frutto di rabbia e di istinto, mentre il maltrattamento, compiuto da un manipolatore, riporta i tratti della freddezza e lucidità, talvolta persino della premeditazione.
Per ferire, l’abusante si serve di alcune frasi taglienti come lame. Teniamo sempre a mente che il suo scopo primario è ledere l’autostima dell’altro. Facciamo alcuni esempi concreti:
-non ne fai una buona;
-ne ho viste tante come te;
-tutti sanno che sei un incapace;
-tutti hanno sentito ciò che hai detto;
-nessuno ti vuole bene;
-fatti curare, lo dico per te. Fallo per tuo figlio;
-tu non stai bene;
-non rispondi mai quando ti chiamo;
-che fai, vieni la prossima volta? Oppure mi ridai buca?
-Fai attenzione: qualcuno potrebbe denunciarti. Il mio è un consiglio;
-ora vuoi parlare con tuo figlio: ma dove eri quando ti ha chiamata?
-Complimenti! Sei proprio una brava persona!
-Con te non si può parlare: sei proprio così!
Esaminiamo ciascuna frase. Nella prima, il manipolatore tende a svilire l’altro tramite una generalizzazione. Magari la persona avrà sbagliato qualcosa, ma dire “non ne fai una buona” significa che sbaglia tutto. Stiamo attenti a queste ricorrenti espressioni. L’abusante non scende mai nel particolare, perché infanga, denigra, scredita senza alcun riscontro di fatti.
Nel secondo caso, umilia l’altro con un chiaro atteggiamento di dominio, come se stesse per pronunciare una sentenza inoppugnabile. Disprezza apertamente senza però dire nulla: a chi ha paragonato la persona che sta screditando? Come chi? Non lo dice. Però il fatto di paragonare l’interlocutore a qualcuno (seppure ignoto), avvalora la veridicità della sua tesi. In effetti, se ne ha viste “tanti”, egli/ella sarà un esperto/a nel giudicare in merito. Alziamo di nuovo le antenne: il manipolatore usa pronomi indefiniti “tutti” “nessuno”, “qualcuno”, “qualcosa”; aggettivi indefiniti “tanti”, “pochi”; avverbi “sempre”, “mai”; “così” con valore di congiunzione, senza però esprimere l’aggettivo che dovrebbe seguirlo.
Nella terza frase violenta, il pronome indefinito “tutti” serve a sorreggere una calunniosa accusa. Mette l’altro in una situazione subalterna, tentando di convincerlo di qualcosa che serve a umiliarlo e a fargli perdere sicurezza in sé stesso. Se tutti sanno che è un incapace, come fa a non esserlo?
Nella quarta asserzione troviamo un caso analogo alla terza espressione.
In quinta posizione appare il pronome indefinito “nessuno”. Perché il manipolatore non fa i nomi di chi non vuole bene a quella persona? Egli/ella mente. Di quei nomi non ne saprebbe neppure uno. Mente spudoratamente. E lo fa, denigrando l’altro.
Nella sesta frase, troviamo l’espressione più ricorrente. È il cavallo di battaglia dei manipolatori, ancora più dei narcisisti perversi e degli psicopatici: convincere l’altro di essere instabile mentalmente. Per soverchiare l’interlocutore e gettarlo in una condizione subalterna, gli dice di curarsi, ma non lo fa semplicemente asserendo “tu sei matta”. Lo fa in maniera ancora più viscida e subdola, sotto forma di consiglio, fingendo quasi una sorta di affetto. Sottintesa è la frase “lo dico per il tuo bene”, sostituita invece da “fallo per tuo figlio”. Arriva persino a tirare in ballo il senso di maternità dell’altra persona. Il manipolatore fa sempre leva sui principi morali dell’altro. Posso assicurarvi che tutti i manipolatori vi accusano di follia. Se sentite questa frase, allontanate immediatamente quella persona. È il modo più sadico per fermarvi e danneggiarvi nell’autostima.
La settima lama dell’abusante, ricalca più o meno ciò che abbiamo appena descritto. “Tu non stai bene”, “fatti curare” esce dalla loro bocca più volte di un semplice “buongiorno”.
Nell’ottavo caso attraverso l’avverbio “mai”, vuole far sentire l’altro in colpa per non avergli risposto. Quando qualcuno tenta di colpevolizzarvi, siete davanti a un manipolatore.
Stessa cosa avviene nella nona frase: far sentire in colpa l’altro per un mancato appuntamento.
La decima frase invece costituisce una vera e propria minaccia. Però si tratta di un’intimidazione fatta in modo velato e sempre generico, tramite l’uso del pronome indefinito “qualcuno”. Il manipolatore vuole intimorire l’altro per farlo indietreggiare e dominare la scena. Per fare questo utilizza principi morali che per primo/a egli/ella non conosce, come la giustizia, l’onestà, la sincerità etc.
Negli ultimi tre casi troviamo in ordine: il senso di colpa su cui l’abusante gioca abilmente; due esclamazioni che denotano malvagio sarcasmo, sempre in un’accezione generica che in fondo non dice nulla sull’altra persona.
Cosa fare davanti alla violenza psicologica?
Nei casi di comunicazione verbale, è possibile contromanipolare le espressioni dell’abusante attraverso l’ironia, la meta-comunicazione (comunicare sulle parole stesse dell’altro, magari mettendolo in difficoltà chiedendogli spiegazioni dettagliate sulle sue generiche affermazioni), sempre rispondendo cortesemente e senza avere reazioni alle calunniose accuse. La parola d’ordine è non reagire e non giustificarsi.
Negli episodi in cui l’abuso invece vede vere e proprie azioni, tipo ricatti, silenzi o a altro, non lasciatevi mai soggiogare dalla paura. Andate avanti e non fate mezzo passo indietro.
Se potete, allontanate immediatamente il manipolatore; se non avete possibilità di liberarvene per svariati motivi (è il vostro collega di lavoro oppure un familiare), tenete in ogni caso le distanze, perché potrebbe usarvi contro tutto ciò che gli confidate. Si tratta di persone che intossicano chi gli sta accanto.
Conclusioni
Dall’analisi che abbiamo fatto, oggi riuscirà più facile distinguere un banale diverbio da una violenza psicologica. Ora bisogna riflettere, per renderci conto di quante volte, nell’arco della nostra vita, abbiamo subito questo tipo di abuso. Prossimamente faremo un’indagine, intervistando alcune persone e attraverso questo campione vedremo quali siano gli ambiti in cui è più diffusa. Successivamente, metteremo in risalto anche quali sono le espressioni ricorrenti. Tutto questo perché dobbiamo renderci conto che la violenza psicologica è tra noi e ormai è divenuta il principale strumento di dominio della società narcisistica in cui viviamo.
Iniziamo a crescere i nostri figli, educandoli al scarifico e all’impegno, cercando di salvarli dalla nociva mentalità del “tutto e subito”. Insegniamo loro che l’altro non è mai una minaccia, ma un arricchimento e un modo per migliorarci. Facciamogli capire che le relazioni umane si fondano sullo scambio e sulla condivisone: dei successi, dei progetti e delle conquiste. Nessuno arriva in cima al monte da solo ed esclusivamente con le sue forze. Torniamo a essere una società capace di gratitudine, che è la più alta espressione dell’umanità.