Alda Merini: la poesia in risposta alla violenza

Alda Merini e laviolenza domestica

 

di Ambra Sansolini

La condizione subalterna della donna nell’ambito familiare

Alda Merini è stata una delle numerose donne sottoposte, contro la sua volontà, alle cure psichiatriche legalizzate dallo Stato. Fu il marito a chiamare l’ambulanza e a farla ricoverare. Come ella stessa scrisse, nell’opera autobiografica, “Diario di una diversa”, nel 1965 “la donna era soggetta all’uomo”, che poteva decidere della sua vita.

La Legge sui manicomi

Alda Giuseppina Angela Merini, venne quindi internata a sua insaputa. In quel tempo ancora vigeva la Legge n°36 del 1904 che regolava la “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché dai manicomi”.

La violenza psicologica

Alda non costituiva alcun pericolo per la vita degli altri. Giovanissima, aveva già una famiglia e due bambine da crescere. Passava le giornate dividendosi tra la cura delle figlie e le ripetizioni scolastiche, che impartiva ad alcuni alunni. Si descriveva felice, ma spesso avvertiva una profonda stanchezza, a causa del gravoso lavoro familiare . Parlò di questo suo malessere con il marito, che non accennò minimamente a comprenderla.

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L’evento scatenante

Quando morì la madre, la scrittrice, come ella stessa disse, “diede in escandescenze”. Era il 1961, quando per la prima volta, venne internata. L’evento scatenante, fu una violenta lite con il marito, che uscito per andare a un funerale, rincasò dopo due giorni. Egli non diede notizie di dove fosse stato, né durante la sua assenza, né al ritorno. Alle domande della donna, rispondeva con il silenzio e le percosse fisiche. Così la rabbia di Alda salì alle stelle, tanto da scaraventargli addosso una sedia. L’uomo quindi, colse al volo l’aggressiva reazione, per farla ricoverare. Secondo le testuali parole della scrittrice, fu proprio trovandosi rinchiusa nell’ospedale psichiatrico, che credette di diventare pazza.

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Il manicomio come istituto di violenza legalizzato dallo Stato

Tentò di ribellarsi, urlando e calciando con tutta la sua forza. Per questo venne legata e le furono somministrati farmaci calmanti. Da allora rimase in stato di coma per tre giorni. In seguito, giunse il marito a riprenderla. Ma ella non volle andare via con lui, perché ormai aveva capito che era un nemico. Restò quindi in manicomio per altri dieci anni, intervallati da brevi ritorni in famiglia, duranti i quali diede alla luce altre due figlie. Nel suo Diario, le descrizioni delle pratiche sanitarie cui erano sottoposti i pazienti, primo tra tutte, l’elettroshock, esprimono chiaramente il dramma di quell’atroce esperienza. Il marito, con il passare del tempo, non andò più a trovarla: “Ti aspetto e ogni giorno/ mi spengo poco per volta/ e ho dimenticato il tuo volto […]”

Ricoveri coatti dei pazienti: cura dei familiari o brama di potere?

Quando fece ritorno nella sua amata Milano, Alda s’impegnò per far conoscere al pubblico, gli orrori del manicomio, prima dell’entrata in vigore della Legge Basaglia. Sottolineò il carattere falso di questa istituzione, che anziché curare, serviva a “scaricare gli istinti sadici dell’uomo”. Non si fece scrupoli nell’ammettere che oltre alle persone bisognose di cure, c’era “gente che veniva internata per far posto alla bramosia e alla sete di potere di altre persone”.

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La società: il peggiore dei manicomi

I manicomi erano posti dove avvenivano umiliazioni, violenze e maltrattamenti. Ma alla fine, Alda Merini apprezzò più la non socialità di questi aberranti istituti, che l’ipocrisia e l’alienazione della società vera e propria: “Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”.

La violenza domestica

Alda Merini probabilmente soffriva di un disturbo bipolare, caratterizzato da marcati sbalzi d’umore e picchi d’ira. Tuttavia ella credeva che la malattia mentale non esistesse : parlava di esaurimenti nervosi, pene familiari, fatica nel crescere i figli etc. Le quattro figlie femmine, hanno raccontato episodi di violenza del padre contro la madre. L’uomo dissipava soldi, tornava a casa ubriaco e picchiava la moglie. Alda pur soffrendo molto, non lo lasciava, perché sperava di cambiarlo. La sua dolorosa illusione, fu segnata da un periodo di silenzio poetico.

La donna come “angelo del focolare”

Alda Merini era nata per scrivere. Era una poetessa. Rinunciare alla poesia, per dedicarsi ad accudire le figlie e fare la donna di casa, fu una delle cause scatenanti del suo male di vivere.

Leggi e ruolo subalterno della donna

Codice civile del 1942

Art.144-Potestà maritale: oltre alla patria potestà, l’uomo assumeva in famiglia un ruolo predominante rispetto alla moglie. Aveva pertanto il diritto d’impartire ordini e divieti. Poteva educarla e correggerla, anche con mezzi violenti e coercitivi.

Art.145-Doveri del marito: il marito ha il dovere di proteggere la moglie e di fornirle tutto ciò di cui ha bisogno, in modo proporzionale ai propri mezzi. In caso d’indigenza, la donna doveva mantenere il marito.

Queste due leggi, conferivano all’uomo il potere di esigere i rapporti carnali anche con la violenza. Tutto ciò rientrava infatti nel suo diritto, a seguito del matrimonio.

Poteva vietare alla moglie frequentazioni al di fuori della cerchia familiare, impedendole di fatto anche la libertà di pensiero.

Aveva il potere di controllarle la corrispondenza e spettava a lui darle l’autorizzazione per firmare un contratto di lavoro.

Conclusioni

Abbiamo analizzato la storia di Alda Merini, per sottilineare come in Italia, le donne vittime di violenza domestica, siano sempre state sottoposte ad altra violenza da parte dello Stato

Oggi noi c’indignamo per le denunce archiviate oppure per le blande pene date ai carnefici. Ma abbiamo l’obbligo di ricordare che, non molti anni fa, il sistema giuridico dava pieno potere al marito sulla consorte. Molte delle  donne vittime di violenza, che tentavano di reagire, venivano addirittura internate.

La storia come lezione per un futuro migliore

Arriverà il giorno, in cui il nostro Stato, sarà finalmente dalla parte delle vittime?

Perché si realizzi ciò, dobbiamo liberarci  del retaggio storico e culturale. Occorre combattere alcuni pregiudizi sociali, che la stessa Alda, conosceva perfettamente. Riportiamo alcune sue dichiarazioni, in una delle ultime interviste: “La società è fatta per gli uomini. Non si concepisce la donna che vive sola, che vive di se stessa, che guadagna quello che può. Dà fastidio la donna che pensa, la donna intellettuale. Il nostro mondo non è fatto di uomini, è fatto di cretini”.

Qual è allora il ruolo della donna? Esclusivamente quello di angelo del focolare e all’opposto, di oggetto sessuale? Regna ancora l’aut aut o meretrice o sposa? Dobbiamo accontentarci di considerare emancipazione, l’avvento della minigonna, esploso alla fine degli anni sessanta del secolo scorso?

L’esempio di Alda Merini: l’ardore che supera le ferite della violenza

La storia di Alda Merini è la dimostrazione di come la violenza possa scalfire la vita di una persona, senza tuttavia spegnerne l’impeto e la passione. Le rendiamo omaggio con questa citazione, sperando che le sue parole, siano di forza per tutte le donne vittime di violenza. Con l’augurio che un domani prossimo, saranno cambiate tante realtà, l’unico modo che ora abbiamo per andare avanti, è scorgere un bagliore di luce anche in questo tremendo tunnel. Se Alda è riuscita a trovare l’incanto e il lato positivo persino nel manicomio, possiamo farcela tutte noi.

“Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio.

Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita spesso è un inferno…per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”.

 

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