La violenza sulle madri: il volto più atroce della violenza sulle donne

 

di Ambra Sansolini

Introduzione

Bisogna introdurre una nuova espressione: violenza sulle madri. Tutto ciò, perché, dire violenza sulle donna non rende giustizia all’intera realtà dei fatti. Dobbiamo porci una domanda molto semplice: cosa succede, se a subire le vessazioni di un uomo è una donna che è anche madre? Quante possibilità ha di sfuggire al suo aguzzino e sognare finalmente una vita serena? Cosa accade quando trova il coraggio di denunciare gli abusi e lasciare il compagno o marito?

Per comprendere al meglio tutto questo, oggi raccontiamo una storia vera di violenza su una madre.

Dalla favola all’incubo

Un amore da favola, trasformato in un incubo. Un uomo dolce e premuroso, che diventa un mostro. L’inizio della violenza psicologica. Poi quella fisica. La confusione di una donna, ormai distrutta nell’autostima. La speranza di poter ancora cambiare colui che, dal primo momento, ha escogitato tutto: arrivare a fingere un amore per annientare una persona. La nascita del figlio e l’inizio di un nuovo capitolo di vita. Poiché diventare madre è la cosa più bella al mondo. Però, neppure una nuova vita, innocente e pura, può fare miracoli. Soprattutto quando da una parte c’è colei che ha amato e creduto, dall’altra un soggetto patologico, che trascina la sua misera esistenza per spegnere le luce degli altri. Per quel bambino, di nome Roberto, la madre riesce a reagire alle violenze, lasciando il marito. Sogna così di vivere dei giorni più sereni e salvare il piccolo da un clima angosciante e deleterio.
Una relazione tra uomo e donna può anche finire. Ma questo non è normalmente possibile, se uno dei membri della coppia è un narcisista perverso o uno psicopatico. Qualora si fanno figli con un individuo simile, l’inferno non sarà più una punizione divina ma la costante della propria vita terrena.
Roberto diventa così, in breve tempo, l’arma migliore nelle sadiche mani dell’uomo. Valentina ha osato disobbedirgli, sfuggendo alla schiavitù e va punita.

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La “rivittimizzazione” della donna che denuncia l’uomo violento: i bambini sottratti alle madri

 

 

 

 

di Ambra Sansolini

 

Introduzione

Abbiamo già analizzato cosa succede quando una donna ha un figlio con l’uomo maltrattante e sporge una denuncia per gli abusi subiti: deve affrontare tutto l’iter dell’affido del minore, che molte volte e senza reali motivi viene sottratto a entrambi i genitori e messo in una casa famiglia. Si tratta di una situazione che i media non presentano quasi mai. Solo chi ha conosciuto l’atroce macchina della giustizia minorile, sa di cosa stiamo parlando. Sembra che questo enorme problema sia totalmente scisso dalla violenza sulle donne. E invece costituisce uno dei principali motivi per cui le vittime spesso non denunciano il carnefice e non riescono a lasciarlo: hanno paura di perdere i loro bambini. Dobbiamo ricordare che la minaccia ricorrente dell’uomo violento è proprio quella di togliere i figli alla ex moglie o compagna: un altro modo per uccidere e punire colei che si è permessa di chiudere la relazione. Una scappatoia che equivale a far morire dentro la donna, senza tuttavia diventare colpevole di un reato. Infatti, tutto ciò è sancito e legalizzato dallo Stato italiano. Nel momento in cui viene sporta una denuncia per maltrattamenti in famiglia, automaticamente si perde il sacro santo diritto di fare i genitori: sulla vita del proprio figlio decideranno Giudici, Psicologi e Assistenti sociali.

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Lettere anonime: le condanne dello stalker

 

di Ambra Sansolini

 

Introduzione

Nei due precedenti articoli, abbiamo preso in esame gli episodi delle lettere anonime ricevute da Agnese per sette mesi (e dell’SMS da utenza rumena). Il Pubblico Ministero ha escluso lo stalking, definendo il tutto una manifestazione di ingiuria, ormai depenalizzata. Poiché su tutti i luoghi frequentati dalle toghe, regna la scritta “la Legge è uguale per tutti”, in virtù di questo splendido e idilliaco teorema, oggi andiamo a vedere come casi analoghi a quello della ragazza ascoltata, siano invece stati approfonditi dalla Magistratura italiana e quindi definiti atti persecutori con tanto di condanna del reo a seguito.

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Di quale giustizia parliamo?

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di Ambra Sansolini

Introduzione

Nel precedente articolo abbiamo analizzato le prove documentali della persecuzione “anonima” subita da Agnese. Adesso invece, prendiamo in esame gli Atti della Procura di Roma, in particolar modo l’analisi del Comandante della Stazione dei Carabinieri cui si rivolse la ragazza e del Pubblico Ministero. La relazione del Comandante è molto importante, perché è tramite la stessa che il Pubblico Ministero si fa un’idea dell’episodio segnalato.
Alcune parti sono state cancellate per motivi di privacy, ma tramite ciò che è lasciato leggibile, si capisce chiaramente come operi la “Giustizia” italiana quando si tratta di violenza sulle donne.

Il Comandante dei Carabinieri

Vediamo cosa scrive un uomo posto a tutela dei cittadini: nella prima riga parla di “condotte diffamatorie” (diffamazione art. 595 c.p.p.) e specifica che le stesse alludono a una relazione sentimentale della querelante con un uomo. Andando avanti, egli si contraddice completamente e nega quanto affermato nella prima riga, asserendo esplicitamente che in tali missive anonime non sono presenti minacce o ingiurie. Si parla di tre lettere, perché al momento preso in esame le missive erano tre. Sottolineiamo che alla fine, in tutto, saranno cinque e che ogni volta Agnese, nonostante la Magistratura italiana continuasse a non aiutarla, ha sporto una querela.
In conclusione, il Carabiniere ipotizza accertamenti tecnici circa la calligrafia dell’autore delle lettere anonime, da confrontare “eventualmente” con quella di due sospettati.

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Alda Merini: la poesia in risposta alla violenza

 

di Ambra Sansolini

La condizione subalterna della donna nell’ambito familiare

Alda Merini è stata una delle numerose donne sottoposte, contro la sua volontà, alle cure psichiatriche legalizzate dallo Stato. Fu il marito a chiamare l’ambulanza e a farla ricoverare. Come ella stessa scrisse, nell’opera autobiografica, “Diario di una diversa”, nel 1965 “la donna era soggetta all’uomo”, che poteva decidere della sua vita.

La Legge sui manicomi

Alda Giuseppina Angela Merini, venne quindi internata a sua insaputa. In quel tempo ancora vigeva la Legge n°36 del 1904 che regolava la “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché dai manicomi”.

La violenza psicologica

Alda non costituiva alcun pericolo per la vita degli altri. Giovanissima, aveva già una famiglia e due bambine da crescere. Passava le giornate dividendosi tra la cura delle figlie e le ripetizioni scolastiche, che impartiva ad alcuni alunni. Si descriveva felice, ma spesso avvertiva una profonda stanchezza, a causa del gravoso lavoro familiare . Parlò di questo suo malessere con il marito, che non accennò minimamente a comprenderla.

Vedi anche

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