La tragica dipendenza tra vittima e carnefice

La tragica dipendenza tra vittima e carnefice

di Ambra Sansolini

Introduzione

Il senso di colpa: quante volte lo abbiamo provato? Se lo chiedessimo a una vittima di un narcisista maligno, ci risponderebbe infinite volte. Il problema è quando ci viene messo addosso attraverso la manipolazione di qualcun altro. Altrimenti, come la paura e il rimorso, rientra in tutto ciò che ci rende splendidamente umani.

Dal romanzo “Su ali di farfalla. Il volo dalla violenza alla libertà”: “Il primo distacco”

Il primo distacco del soggetto patologico giunge inaspettatamente e nel bel mezzo di un periodo di frequentazione piacevole e positivo. Arriva come una doccia gelata, a svegliarci da un sogno per farci piombare in un pesante incubo. Per quanto la vittima si sforzerà di cercare motivazioni logico-razionali, l’unica cruda verità è che l’aguzzino ha dato vita alla dolorosa danza della dipendenza affettiva. Il distacco inaspettato infatti non farà che aumentare nel partner l’attaccamento verso il suo carnefice. Soprattutto perché quest’ultimo tornerà e lo farà nel modo più dimesso possibile, somigliando più a un bambino bisognoso di amore che al famelico vampiro di anime, che aveva mostrato di essere poco prima.

Litigare con un narcisista perverso significa lacerarsi

Un celebre motto recita che “l’amore non è bello se non è litigarello”. In linea di massima uno scontro è anche una forma di incontro o comunque un modo di confrontarsi con l’altro. Ma imbattersi in una discussione con un individuo simile è tutta un’altra faccenda. Esprimere il nostro risentimento o fare semplicemente delle critiche a qualcosa che non funziona nella coppia, scatenerà la sua immensa rabbia. È impossibile far riflettere sui propri errori colui che ritiene di essere perfetto. Pur di fuggire alle responsabilità, è disposto a tutto: proietterà sulla compagna i suoi sbagli, alimentando in lei il senso di colpa e/o arrivando a darle della pazza.

Il limite tra cambiare e venirsi incontro

Nessuno cambia, ma perché una coppia funzioni, occorre venirsi incontro: il che non significa mutare carattere, ma semplicemente modificare alcuni atteggiamenti. Il punto è che per fare ciò, occorre essere in sintonia con i bisogni dell’altro: entra quindi in gioco la famigerata empatia. Se riesco a immedesimarmi nel partner, posso avvertire la sua delusione per una mia mancanza, riesco a percepire una sua ferita o qualsiasi altra emozione. Per un soggetto che non conosce empatia, tutto questo risulta impossibile. Così, davanti al risentimento e al disappunto della compagna, le uniche frasi che saprà dire sono: “prendere o lasciare” oppure “io sono come sono”, “io sono così. Punto”. Tali espressioni denotano la chiusura tipica del narcisista e attinente al suo modo di vedere la vita necessariamente bianca o nera, senza alcuna sfumatura. Una costante dicotomia in cui tutto ciò che risulta diverso dal Sé grandioso, viene visto come una costante minaccia alla propria fallace sicurezza. Non dimentichiamo che dietro alla sua maschera di sabbia, c’è un essere fragile: un bambino deluso, ora divenuto adulto, che agogna di saldare quel conto con il mondo, che ha osato tradirlo e ferirlo (delusione da attribuire spesso a una delle due figure genitoriali). In lui tutte le pulsioni sono quelle incontrollate, di un infante capriccioso e prepotente. Ma le potenzialità sono quelle di un adulto e da ciò ne scaturisce un essere nocivo e persino pericoloso.

Empatia vs narcisismo patologico

Nelle pagine del romanzo che abbiamo riportato, si può notare l’atteggiamento fortemente empatico di Agnese: la fanciulla si interroga per ore ed ore su un possibile sbaglio nei confronti di Leonardo. Il suo continuo immedesimarsi in chi ha vicino non trova alcuna risposta dall’altra parte: “per Leonardo era tutto un sadico gioco e recitata una parte, si sarebbe presto calato in un’altra”.

Come una droga

Rendere felice una persona alza i suoi livelli di serotonina. Ci sono una serie di ormoni, che in qualità di sostanze chimiche, incidono fortemente sul nostro umore: adrenalina, noradrenalina e ossitocina. A queste si aggiunge la dopamina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello e in parte dalle ghiandole surrenali. La dipendenza affettiva, che si genera in rapporti tossici, ha quindi una componente biochimica. Ciò spiega perché una donna vittima di violenza resti attaccata al suo aguzzino, un po’  come il tossicodipendente alla costante ricerca della droga. Nei loro cervelli si è innescato un meccanismo di dipendenza: nel primo caso da alcune emozioni e nel secondo da sostanze stupefacenti. Prima che la vittima sia sottoposta a percosse fisiche, è stata già resa dipendente dal suo abusante, facendole vivere un amore da sogno e poi interrompendolo bruscamente. L’astinenza da quelle stupende emozioni genera un maggiore attaccamento e parimenti blocca la volontà. In tutto questo c’è la risposta alla comune domanda “perché se la picchiava non lo lasciava?” Perché sperava di riavere un briciolo dell’amore vissuto all’inizio. Perché se ogni giorno ingoi un po’ di veleno,  non riesci più a notare la sua pericolosità. Perché se una persona o una sostanza hanno scatenato in te certe reazioni chimiche, basterà pensare a quelle stesse per riviverle.

Un uomo violento ti entra dentro così, nei nervi e nelle vene. Arriva a possedere la tua anima e la tua mente. A quel punto distruggerti è un gioco da ragazzi…

 

 

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