Lupi travestiti da agnelli

Lupi travestitti da agnelli: attenzione a chi incontriamo lungo il cammino di liberazione dalle violenze.

 

di Ambra Sansolini

 

Introduzione

Lupi travestiti da agnelli, che si esibiscono davanti a una platea. Stiamo parlando di chi sfrutta la delicata e seria causa della violenza sulle donne, come vetrina per la propria immagine e professione, cavalcando l’onda del momento. Sono in molti ormai quelli che si siedono dietro la cattedra e fanno didattica, dall’alto di un piedistallo parlano freddamente di vessazioni che in fondo non li riguarderebbero mai. Ma la violenza sulle donne non è una materia scolastica, né pura teoria. C’è in ballo la sofferenza umana e la vita di molte persone. Verrebbe spontaneo pensare che dove si combattano abusi e ingiustizie, ci sia lealtà, coraggio e soprattutto verità. E invece i lupi esistono anche lì, camuffati nella loro veste migliore, quella più facilmente venduta. Affamati di meriti morali e umani, si cibano del sangue e delle lacrime delle vittime, per ricevere applausi e complimenti. Quale modo migliore in effetti, per aumentare prestigio e notorietà, se non quello di mostrarsi come paladini di una causa sociale tanto importante?

Tra palco e realtà

La sedia

Sono entrata in contatto con questo settore, in qualità di vittima, alla ricerca di un sostegno e di una guida per uscire dal tunnel delle violenze. Ho conosciuto molti professionisti seri ed affidabili, realmente coinvolti nella battaglia in questione, ai quali devo la conoscenza su certi argomenti ed anche la mia salvezza. Sì, perché mi sono salvata grazie all’informazione, ma quella vera. Conoscere il profilo del carnefice e appropriarsi degli strumenti per combatterlo, significa rinascere. Prendere consapevolezza di ciò che abbiamo vissuto, vuol dire sanare un grande trauma: il più delle volte essere vittime, significa anche interiorizzare colpe non proprie. Per questo motivo, diventa fondamentale comprendere alcuni meccanismi e forse anche certe responsabilità, guardando al doloroso vissuto di violenza, come a qualcosa che è parte di noi. Chi ha subito maltrattamenti, ha un intenso bisogno di perdonarsi, di riconciliarsi con sé stessa. Ci sono molti pezzi da ricostruire, perché la lacerazione provocata dagli abusi, sposta il baricentro della nostra identità. Ecco il motivo per cui informare equivale a salvare: una vittima, partecipando ad un convegno, deve uscirne rinnovata e con un’energia positiva. Da quel momento, potrebbe accendersi in lei la scintilla per riprendere in mano la sua vita. Non si assiste a questo tipo di eventi, per mettere nel sacco una serie di nozioni e accrescere la cultura.

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La cattedra

Ultimamente mi è capitato di stare dall’altra parte, seduta davanti la cattedra e di parlare alle donne. Non c’è stato un istante in cui non mi sia rivista in ognuna di quelle sedute di fronte a me. Di alcune ricordo ancora i volti, le espressioni e le movenze. Chiunque può assistere a questi incontri, ma coloro che cercano davvero qualcosa, le vedi subito. Chi ci è passata, sa percepire quella luce quasi spenta, fioca, che agogna la favilla, per ritornare a splendere. Non è una lezione all’Università, non basta lo schemino. Dobbiamo immaginare di avere tra il pubblico una donna distrutta dal suo aguzzino, sola e persa, che vuole tornare a vivere. A una così, non interesserebbe mai che la violenza si divide in tre fasi, perché tutti gli stadi, li ha passate sulla pelle. Supponiamo invece siano presenti genitori preoccupati per la loro figlia: illustrare la dipendenza affettiva, non toglie loro l’angoscia di liberare la fanciulla dal suo aguzzino. Quello che si chiede il pubblico, una volta saputo cosa sia la Sindrome di Stoccolma o altro, è: “Ora, cosa me ne faccio?” E sì, perché in questo caso della spicciola teoria, chi soffre davvero, non se ne fa nulla. Allora bisogna informare in modo semplice e pratico. La gente necessita di soluzioni immediate. Le donne sono alla ricerca di un aiuto concreto, non vengono per riempire il taccuino di appunti.
Facciamo riferimento alla maieutica di Socrate, la quale non era l’arte d’insegnare, ma di aiutare. Come affermava l’illustre filosofo, la verità non è insegnabile perché è un sapere dell’anima. Per questo non bisogna inculcare nelle donne delle idee, ma aiutarle a “partorire la loro verità”. Non siamo maestri, non dobbiamo insegnare nulla, ma solo guidare le vittime per far sì che si risveglino dall’assopimento delle violenze. Il pubblico aspetta l’input: questa è la realtà.

I maestri-lupi: disinformare per dominare

State pur certi, che chi sfoggia termini specifici e paroloni incomprensibili, lo fa per disinformare. Li vedete su un palco, lontani dalla realtà. Esprimersi attraverso un linguaggio didattico e magari anche poco comprensibile al pubblico, garantisce a chi parla, la certezza del dominio. «Io sono il maestro-detentore della verità e tu l’allievo, pure “somarello”». In questo modo avviene una vera e propria manipolazione, che rende passivo il pubblico: una volta che si è sedata l’attenzione dei presenti, diventa quanto mai facile sparare all’impazzata soluzioni alla violenza sulle donne, che in realtà non esistono. Mentre tre quarti dei presenti in sala dormono sulla sedia, può passare per vero anche il fatto che se chiami le Forze dell’Ordine per un caso di violenza domestica, gli agenti faranno persino una perlustrazione dettagliata della casa, per reperire oggetti rotti o altri segnali di aggressione.
Certamente, tutto questo artificio, serve al relatore per mettersi sul palco ed esibirsi, facendo mostra del suo sapere. Ma una vittima di violenza, è interessata e soprattutto trae giovamento da giri di parole senza senso? Solitamente gli autori di questi sterili monologhi, sono i lupi travestiti da agnelli: persone che seguono la moda della violenza sulle donne, per un briciolo di notorietà e un pizzico di fama. Sono spesso anche gli stessi a compiere violenza sulle creature femminili e i loro figli e che poi vogliono farsi lodare come salvatori. Non si sta facendo propaganda, la violenza non è un messaggio promozionale.

Conclusioni

Per mettere fine alla violenza sulle donne, dobbiamo essere certi che ad occuparsene siano persone realmente coinvolte. Di solito l’abusante è un narcisista perverso o nei casi peggiori, uno psicopatico, privo di empatia. Ma sono sempre più convinta, che oltre ad essere un disturbo di personalità, stia diventando anche un modo di essere, ovvero un modo di non essere. Se c’è tanta violenza, è perché siamo diventati una società narcisistica in questo senso, il cui imperativo è solo apparire. Se i primi a non immedesimarsi nella vittima, sono i relatori e i professionisti, che parliamo a fare del carnefice privo di empatia? Perché si continua ad illudere le donne, su realtà inesistenti e soluzioni irreali? Ciò che conta è solamente farsi belli delle proprie conoscenze ed essere fautori di un sistema in cui funziona tutto alla grande? Oppure è più importante stare veramente dalla parte delle donne? Certamente per l’immagine professionale di un qualsiasi esponente delle Istituzioni, è più proficuo presentare un quadro positivo, in cui tutto sembra risolvibile e attuabile. Ma ciò avviene sulla pelle delle vittime, sulle lacrime e sul sangue. Perché mentre molti si pavoneggiano per le conquiste fatte, troppe donne ancora soffrono, piangono e muoiono. Non solamente a causa dell’aguzzino, ma di un intero sistema complice di quelle nefandezze, omertoso, ipocrita, schiavo dell’apparire. Chiunque, prima di mettere mani e bocca sulla violenza contro le donne, dovrebbe essere sicuro/a di sentirsi una/o di loro.

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