Una comunicazione che fa ammalare

 

di Ambra Sansolini

 

Introduzione

Solo chi ci è passato sa quanto possa essere distruttiva la comunicazione con un narcisista perverso. Tutte le vittime, pur non sapendo di cosa si trattasse, hanno provato tuttavia una sensazione di sfinimento e addirittura di disperazione. Come riesce il carnefice a portare la preda sull’orlo del baratro? E soprattutto usa questo tipo di comunicazione anche con gli altri?
Per cercare di non farci più irretire dalle trame del ragno velenoso, entriamo nello specifico della questione.

Partiamo dal principio che un soggetto patologico usa qualsiasi mezzo per prevaricare l’altro. La comunicazione non fa eccezione. Entrare in un dialogo con lui significa restarne comunque schiacciati. L’unica via di salvezza è evitare il contatto, ma ci sono casi in cui è impossibile farlo, come ad esempio quando si hanno figli in comune. Negli articoli successivi analizzeremo le tecniche da usare per cercare di gestire queste inevitabili situazioni, ma ora dobbiamo concentrarci per riconoscere una comunicazione sana e vera da quella finta e tossica dell’abusante.
Innanzitutto il suo modo di esprimersi (o meglio di soverchiare) cambia a seconda delle fasi della relazione. All’inizio, durante il corteggiamento e la fase della conoscenza, è davvero complicato riconoscerlo. Sicuramente il veleno che esce dalle sue parole, si fa via via più tangibile quando crolla la proiezione di perfezione con la quale ha irradiato la coppia. Il tutto raggiunge le punte massime di violenza nel momento in cui finisce il rapporto, soprattutto se è stata la preda a fare questa scelta.

L’illusione di un amore

Durante la fase iniziale, sia la vittima che il carnefice si trovano dentro la proiezione di perfezione narcisistica, sulla quale quest’ultimo ha plasmato la coppia. Sembra tutto davvero perfetto: la realizzazione di un amore da favola. L’aguzzino indossa ancora la maschera del cavaliere innamorato, disposto a fare qualsiasi cosa per la sua amata. Non è certo questo il momento in cui scopre il suo “dark side”, eppure dalla sua bocca escono talvolta frasi enigmatiche, che in alcuni casi mettono la donna già in uno stato di allerta. Molto spesso è lo stesso individuo patologico a usare certe parole per testare l’incolmabile distanza tra lui e gli altri e quindi trarne godimento. Si tratta di meccanismi di cui è perfettamente consapevole: non solo conosce il potenziale dannoso della sua comunicazione, ma soprattutto in questo primo stadio si diverte a tirarne fuori qualche chicca per assaporare tutto lo sgomento dell’interlocutore. Insomma fa dei test, delle prove in cui sonda il terreno sul quale poi seminare le bombe per distruggere la preda. Allo stesso tempo gioca e si diverte: prova piacere nel vedere l’altra persona totalmente priva dei mezzi per comprenderlo. Essere sfuggevole è la sua prima e più potente arma: se nessuno riesce a capirti, a decifrare le tue parole, alla fine vinci sempre. È un gioco sadico, che apre le danze al piano di distruzione che verrà dopo.

Ma quali sono nello specifico queste parole ambigue, che usa in modo subdolo e quasi impercettibile? Qualsiasi vittima di un narcisista perverso ha sentito dirsi “abbi cura di te”. Apparentemente sembra una frase dettata da un sentimento, che in ogni caso denota interesse e premura verso la partner. Eppure il tono con la quale viene pronunciata e/o il contesto logico-semantico in cui si colloca possono farne intuire il carattere sadico e commiserevole. Alcune donne invece sono chiamate nella relazione con appellativi che rimandano al mondo infantile o delle favole. I nomignoli d’amore sono sempre stati una costante delle coppie, ma in questo caso non vengono mai assegnati a caso. La vittima è così affiancata a figure deboli, innocenti, ingenue, che spesso rimandano alla spensieratezza e alla purezza dell’infanzia, a quella parte di vita del carnefice sfregiata e interrotta bruscamente dalla ferita narcisistica. È come se nella fidanzata rivedesse sé stesso bambino: poiché nessuno ha avuto pietà e comprensione dei suoi intimi bisogni, egli non esiterà a fare tabula rasa dei desideri della partner. Potremmo sentirci chiamare “bambina”, “biancaneve” o altri nomignoli analoghi. Il dramma è che non esiste sentimento dietro a questi appellativi e non sono assegnati perché abbiamo una carnagione eterea come la protagonista della favola. Se ci chiama “biancaneve”, è perché prima o poi mangeremo dalle sue mani la mela avvelenata. Se ci dice con quel tono finto amorevole e compassionevole “bambina”, non mira a proteggerci, ma è cosciente della nostra purezza interiore e vuole contaminarla.

Potrebbe accadere che offra persino un assaggio del piano di distruzione che sta covando ai vostri danni: si compiace di dire senza dire, di rivelare qualcosa senza tuttavia essere capito. Come nella narrativa l’anticipazione di episodi, raccontati nelle pagine successive, costituisce l’ingrediente per creare la suspense, così egli agogna di gettare la vittima in uno stato crescente di ansia.

Leggi la comunicazione paradossale 

Quando cade la maschera

Nella fase in cui s’interrompe la finzione sagacemente recitata agli occhi della partner, l’abusante inizia a scoprirsi nel suo vero volto. Prendono così vita le accuse calunniose, le umiliazioni e i rimproveri. Se prima sembrava intuire al volo i vostri più celati bisogni, ora non li capisce neppure se glieli ripetete in tutti i modi. Questo maligno e iniziale tentativo di distruzione si snoda proprio attorno alla comunicazione. Ad esempio potrete dirgli: «Tesoro, sto finendo una cosa di lavoro. Andresti gentilmente a ritirare i panni in lavanderia?» E in risposta avrete: «Senti un po’, ma che credi di lavorare solo tu? Mi sembra che io guadagni più di te e che pertanto andiamo avanti grazie al mio stipendio. Alza quel sederone e vai tu a ritirare i panni!» A una cortese richiesta di aiuto da parte della compagna o moglie, è riuscito con una risposta a denigrarla sotto ogni punto di vista: professionale, economico e femminile. È bastato chiedergli semplicemente un favore per essere completamente schiacciata. Facciamo un passo in avanti e proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se la donna si fosse difesa da quei velati insulti. «Ma ti sei mai visto allo specchio? E inizia a pagare lo sport di tua figlia, visto che finora a farlo sono stata solo io!» Se con questa difesa la vittima pensava di offendere o ledere in qualche modo l’altro, in verità ha solo alimentato il suo ego narcisistico. A nulla vale fargli presente la realtà o tentare di insultarlo: è convinto di essere il più bravo, il più bello, il migliore e soprattutto non proverà mai il senso di colpa. Sentirà solo un immenso piacere davanti alla vostra rabbia e a seconda delle parole che userete, vi ritorcerà tutto contro, facendovi passare anche da maleducate, incivili e persone poco raccomandabili.

Vai al profilo del carnefice

Conclusioni

Se dovessimo spiegare cosa sia il vuoto, potremmo tranquillamente associarlo alla comunicazione narcisistica. In essa non vi sono contenuti, ma solamente parole senza sostanza, usate per prevaricare l’interlocutore. L’assenza totale di un piano logico-semantico induce spesso la vittima a fare di tutto per cercare di riportare il dialogo entro la giusta cornice comunicativa. Tuttavia, si tratta di un tentativo impossibile da attuare, che quasi sempre trascina il soggetto-bersaglio a un livello peggiore del carnefice. Qualora riusciate a evitare reazioni palesi di rabbia, sarete comunque defraudate di ogni vostra minima energia: provare a ragionare con un narcisista perverso è un’impresa irrealizzabile. Vi sentirete scariche e senza forze e avrete l’impressione di stare sul punto d’impazzire. E il peggio viene fuori solamente dopo la separazione o il divorzio, quando ci sono figli in comune. Questo è tutto un altro incubo…

2 pensieri riguardo “Una comunicazione che fa ammalare”

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